16 Novembre 2024 03:57
Sui Mapuche ci eravamo lasciati con il mio articolo su Lucia Sepulveda. Sposata a un Mapuche “urbano”, ha vissuto alcuni mesi in clandestinità a casa di Sonia Edwards.
Questa era incredibilmente del MIR e al contempo sorella del proprietario del Mercurio, Agustìn Edward, il giornale più fedele al regime di Pinochet. Lucia e il compagno Mapuche furono una coppia di combattenti nella Resistenza.
Oggi siamo invece a colloquio con Pablo Gonzales, cooperante nei territori Mapuche molto legato all’Italia. Ingegnere agronomo, ha lavorato sin dal 1991-95 a un progetto tra il nostro MAE e il dipartimento di Salute pubblica dell’Università ‘La Frontera’.
In seguito anche a una cooperazione tra il Progetto Sviluppo della Nexus e l’Indap cilena, lavorando su tutti i popoli originari del Cile (Mapuche, Aymara…).
Sono colloqui del nostro Progetto Sudamerica, che svolgo per il professor Foad Aodi da Santiago del Cile per i prossimi 4 anni, fino alla scadenza delle cariche AMSI nel 2025.
Pablo è appena arrivato dalla zona del conflitto.
A un italiano come spiegheresti la questione Mapuche in Cile?
“Il conflitto è limitato alla Araucanìa e alla zona del fiume Biobio, si va acutizzando in aree specifiche. È figlio della legge del 1973 che permette ai forestali lo sfruttamento delle terre indigene.
È il modello neoliberista cileno: privatizzazioni, espropriazione, mercato dell’export.
Alcune leggi per comprenderne il problema solo quella agricola, ovvero il DL 2568 del 1979 e il DL 701 del 1974.
Lo sfruttamento forestale avviene in un’area specifica. Altrove, come a Los Rios e Los Lagos, non c’è conflitto perché non c’è questo tipo di sfruttamento”.
Credi che Boric potrà risolvere il conflitto coi Mapuche?
“Non credo. Perché si dovrebbe riuscire a risolvere in 4 anni quel che non è riuscito in due secoli? Ci vorranno decenni”.
Sì. Ma come si potrà mai arrivare a una pacificazione?
“Per aprire un canale di dialogo occorre parlare con le autorità ancestrali dei Mapuche. E occorrono personalità politiche di tipo interculturale. Organizzazioni internazionali come l’ONU non possono fare molto: non c’è confidenza”.
Lorenzo Proia